La lentezza della Giustizia italiana è dannosa, ma c’è una soluzione

| Fernanda De Simio (STAFF) | Area legale (LAW)

Non è raro che nell’ambito del sistema giudiziario italiano si parli dell’urgenza di una riforma che possa ridurre i tempi processuali, la cui estensione è ben più lunga di quanto previsto dalla Costituzione all’art. 111.

È noto, ormai, che l’Italia è seconda soltanto alla Grecia per la durata dei processi in Europa; ne è la chiara dimostrazione la stima media di otto anni per un processo civile, di cinque anni e mezzo per un processo amministrativo e di quattro anni per un processo penale, che seppur il più breve resta in ogni caso sopra la media europea.

L’eccessiva ed irragionevole lunghezza delle procedure giudiziarie provoca ripercussioni dannose sul piano economico alle parti del processo. Un’azienda, ad esempio, potrebbe subire il congelamento di interessi economici dai quali potrebbero derivare nuovi investimenti, nuovi posti di lavoro, nuovo gettito fiscale per lo Stato e altre nuove opportunità che beneficerebbe non soltanto l’azienda in sé, ma anche il resto della società.

A chi si imputa, dunque, la responsabilità di una tale lungaggine? Non di certo all’inerzia dei giudici, bensì alla mole di lavoro a loro carico.

Appurato che il nucleo del problema è l’insufficienza di organico all’interno dei tribunali, l’ampliamento del personale negli uffici giudiziari sarebbe il rimedio, il quale permetterebbe, tra l’altro, l’aumento di assunzioni tra i laureati in Giurisprudenza, una categoria copiosa nel mercato del lavoro italiano.

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